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Personaggio estremamente complesso, seducente e ombroso, sincero e teatrale, umile ed arrogante, introverso e dongiovanni, Albert Camus nel 1957 riceve il premio Nobel per la letteratura. Di umili origini, nasce nel 1913 nel proletariato francesce di Algeri, figlio di una madre analfabeta che faceva la domestica e di un padre cantiniere, morto in guerra quando il piccolo Albert era ancora in fasce. L'orfanello cercherà sempre "follemente quel padre che non ha avuto". E' un ragazzino molto intelligente. Ancora liceale scrive i suoi primi poemi e collabora alla rivista Sud. La famiglia sogna che diventi maestro di scuola. I suoi insegnanti l'incoraggiano a proseguire gli studi superiori grazie ad una borsa di studi. Una seconda borsa gli permise di continuare con gli studi universitari di filosofia benché lui si senta più attirato dalla letteratura. Durante le vacanze svolge diverse attività manuali per finanziare i propri studi. Fragile di salute, fin dall'adolescenza subisce i primi attacchi della tubercolosi, che lo affliggerà per tutta la vita e che non lo ha proteggerà, come egli credeva, dalla morte violenta avvenuta per un incidente stradale nel 1960:

«Ha notato che non si possono cumulare le malattie? Supponga di avere una malattia grave o incurabile, un cancro serio o una buona tubercolosi, e lei non prenderà mai la peste o il tifo, è impossibile. Del resto si va ancora oltre: non avrà mai veduto un malato di cancro morire in un incidente d’automobile».

La peste - 1947

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Camus contrasse la tubercolosi nel 1930 quando aveva appena 17 anni. Confidò che, se la sua salute glielo avesse permesso, avrebbe scelto la carriera del calciatore. La malattià segnò tutta la sua vita: gli impedì di passare “l’agrégation” di filosofia (concorso francese per diventare insegnante di ruolo nella scuola superiore e all’università), nel 1939 fu rifiutato il suo arruolamento nel 1939 fu rifiutato e un anno prima di morire, nel 1959, quando la malattia aveva ormai reso le sue condizioni di salute molto precarie, fu costretto a rifiutare l’incarico di dirigere la Comédie Française, offertogli dall’allora ministro della cultura André Malraux.

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La formazione filosofica dello scrittore che attraversa i tempi bui della guerra e che combatte la malattia influenzano lo scrittore che non può dimenticare che la morte è sempre vicina, anche nel pieno della propria vita. Da qui, l’assurdità dell’esistenza. Albert Camus è spesso affiancato agli esistenzialisti, ma grandi divergenze lo separano da Sartre. Anzi la sua concezione antimarxista e la sua critica antitotalitaria del comunismo reale provocò la rottura con Sartre:

“Non ho imparato la libertà da Marx. Ѐ vero: l’ho imparata dalla miseria”.

Lo straniero - 1942

Sono entrambi atei, Sartre con compiacimento, Camus nella perplessità. Sartre è un borghese, sicuro di sé. Camus, di origine proletaria, non ama parlare dei suoi tormenti metafisici. In realtà Camus ha sempre rifiutato di considerarsi "un genio filosofico" e si è dedicato contemporaneamente a diverse attività. Il primo resterà fedele a uno storicismo marxista; ne il secondo rifiuterà in blocco l' universalismo giacobino e comunista. Allora Sartre lo denuncia in un saggio velenoso, che ha il peso di una scomunica. La rottura fra i due è consumata. Camus rispone:

“ogni rivoluzionario finisce oppressore o eretico”.

L'uomo in rivolta - 1951

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Nel suo capolavoro “La peste” del 1947 Camus racconta il dilagare di un'epidemia di peste che si manifesta in un tempo non precisato degli anni '40 del secolo scorso, in una città dell'Algeria, Orano. Camus conobbe la malattia ma anche la rivalsa:la letteratura non solo lo rese libero, ma eterno.

Il morbo della peste è ovviamente la rappresentazione simbolica del Male; e il dottor Rieux, narratore de “La Peste”, trova nella lotta contro l’epidemia un’occasione per combattere contro l’assurdo. Ѐ l’attitudine di un “uomo in rivolta”, quella di Camus stessa, che trova nella vita, nella natura, nell’uomo, ragioni per sperare. La Peste si presenta come una riflessione allegorica sul male e sul recente trauma della guerra: l’uomo è chiamato ad essere “eroe”, data l’emergenza del morbo (del male) che infetta ogni vita.

«Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare... pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro? …. Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché esistono i flagelli».

 

Così il flagello diventa reale, obbligando i cittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali, ed ecco lo stare insieme diventa la prima soluzione all’emergenza, l’unica possibilità di sconfiggere il male. La visione del bene viene quindi rappresentata dal lavoro quotidiano di un medico in mezzo alla malattia, che è esattamente quella dell’intellettuale sotto il dominio del “sistema”.

Il romanzo si conclude con il debellamento della peste e la gente ricomincia a vivere con gioia e speranza, dimenticando, però, che il bacillo non muore mai e prima o poi manderà i suoi topi a morire in una città prima felice. Non illudiamoci di poter vivere sereni.

Quindi il sentimento dell’assurdo non porta alla rassegnazione ma alla rivolta, e la rivolta porta all’impegno. Tale fu il percorso di Albert Camus, tra la bellezza dei paesaggi mediterranei della sua infanzia e la violenza della società durante le guerre e i totalitarismi del XX secolo.

L’immenso successo internazionale rende La Peste un classico della letteratura antitotalitaria.

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