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dott. Giuseppe Di Marco
Specialista in malattie respiratorie
Diagnosi e cura delle malattie allergiche
"II vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s'accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre".
Italo Calvino - Marcovaldo - 1963
Grandi artisiti del passato ammalati di Tubercolosi
L’espressione “poeta maledetto” nasce da un’antologia pubblicata da Verlaine nel 1884 intitolata “Les poètes maudits” ricomprendente versi di alcuni poeti, tra i quali lui stesso, accomunati dallo spirito ribelle e da una visione iconoclasta e innovativa della società, oltre che dall’essere destinati a non essere compresi dai loro contemporanei.
Keats
John Keats (1795-1825)
Di John Keats (1795-1825) rimane l'immagine tramandata del poeta morto vergine, senza aver consumato il suo amore per la giovanissima Fanny Brawne, le cui lettere d'amore giacciono ancora sotto la lapide del cimitero inglese di Roma dove il poeta fu tumulato nel 1821.
Probabilmente il “primum movens” della sua fuga dal reale sarebbe stata la paura per le donne e per il sesso, generata da un complesso estremamente umano poiché pensava che nessuna donna avrebbe potuto amarlo perché era troppo basso. Ma per lui, che sapeva trasformare la sua parola nei suoni di usignolo (“A un usignolo”), una tappa fondamentale di questa fuga è stata la tubercolosi, la malattia romantica letterariamente interpretata come il segno della consunzione e della negazione alla vita di un'anima inquieta.
Nel 1818 cominciarono a manifestarsi in lui i primi sintomi della tubercolosi. Lo stesso anno, a seguito di alcune recensioni negative sull’Endymion, cercò nuove forme espressive per la sua poetica. In questo periodo la sua vita fu divisa tra lutto e gioia: infatti il fratello Tom morì quell’autunno di tubercolosi e John lo assistette sino agli ultimi istanti; nel frattempo incontrò l’amore della sua vita, Fanny Brawne, vicina di casa in Hampstead, si fidanzò e il suo amore per la fanciulla divampò in tutta la poetica seguente, che vide nuovo slancio e consistente rinnovamento. Questo amore non poté mai coronarsi con un matrimonio per le ristrettezze economiche e per l’aggravarsi delle condizioni di salute di Keats, che dedicò all’amata lettere di passione sublime.
Lei come una vedova portò il lutto per tre anni, passando ore nella propria stanza a rileggere le lettere d'amore di lui; più tardi, nel 1833, si sposò, ebbe due figli. Non tolse mai l'anello che Keats le aveva dato.
Lo stesso anno videro la luce alcuni tra i capolavori più famosi del Poeta: Isabella, The Eve of St. Agnes. Passione indolente, meditazione lirica e temi della mitologia classica si unirono in queste nuove composizioni.
Sempre nel 1818 compose “le odi”, tra le quali On a Grecian Urn, To a Nightingale, On Melancholy. Il tema delle odi si basa sulla dicotomia tra l’ideale dell’eternità, della mitologia, del divino e la caducità del mondo fisico, tema entrato nel linguaggio del Poeta a seguito della morte del fratello; di qui la ricerca di una via di liberazione attraverso l’immaginazione.
L’amore per la Brawne come una fiamma arse fino agli ultimi giorni, pur nella consapevolezza che non avrebbe mai potuto saperla al suo fianco come compagna di vita. Lui aveva ventitrè anni, lei diciannove. Lui era poeta, lei una borghese che imparava le tecniche del cucito e lo stile della moda. Lui, senza un soldo, fratello d'un ragazzo malatissimo, mantenuto da un amico che lo ammirava, non avrebbe mai potuto sposarla: nella società dell'epoca, il loro amore appassionato era impossibile. Arrivati all'ossessione romantica, dovettero separarsi
“Dubito che ci rivedremo su questa terra”
Tra il 1819 e il 1820 le sue condizioni di salute peggiorarono senza possibilità di guarigione. La diagnosi di tubercolosi venne confermata all’inizio del 1820 e il medico gli consigliò di recarsi nel sud Europa per l’inverno, in Italia, dove anche l’amico Shelley lo aveva invitato a Pisa. A settembre dello stesso anno salpò da Londra per Napoli con la volontà di arrivare a Roma, città dove l’eterno ha la sua naturale dimora, ma che il destino gli concederà di raggiungere senza però avere il tempo di visitare e ammirare per via del peggioramento della malattia.
Con lui durante il viaggio e fino agli ultimi istanti, l’amico Joseph Severn, autore di diversi ritratti del Poeta, che gli restò accanto fino alla fine, in quella stanza che si affaccia sulla splendida Scalinata di Piazza di Spagna, oggi sede della casa-museo Keats-Shelley House.
La casa-museo del poeta, dove passarono anche lord Byron e Percy Bysshe Shelley (i più importanti esponenti della seconda generazione romantica inglese), si trova accanto alla Scalinata di Piazza di Spagna, è stata l’ultima dimora di John Keats, che vi morì nel 1821 a soli venticinque anni. L’esterno dell’edificio è simile a com’era quando Keats arrivò a Roma. E’ aperta al pubblico dal 1909 per visite guidate virtuali tra le stanze che ospitano ritratti e manoscritti, mobili e cimeli di Keats e di altri grandi poeti inglesi, tutti innamorati di Roma.
Altri pezzi importanti della collezione sono: un reliquiario contenente una ciocca di capelli di John Milton e di Elizabeth Barrett Browning, una maschera di carnevale in cera di Lord Byron e manoscritti di Jorge Luis Borges, Oscar Wilde, Mary Shelley, Walt Whitman, William Wordsworth, Robert Browning e Joseph Severn, l’amico e compagno di viaggio di Keats.
Oltre alle due sale espositive, della Keats-Shelley Memorial House si visitano anche la terrazza, una sala da tè, un negozio di libri, una piccola stanza per la proiezione di video sui poeti romantici e soprattutto una delle più belle e ricche biblioteche di letteratura romantica del mondo, con oltre 8 mila volumi, a cui vengono sempre aggiunti nuovi titoli.
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Eugène Delacroix (1798 – 1863)
Delacroix
Eugène Delacroix è ritenuto il più grande pittore romantico francese, sia per il vigore che per la vastità della sua produzione. Nato in una famiglia alto-borghese di Parigi frequenta gli ambienti della corte napoleonica e finché la domanda da parte dei collezionisti rimane bassa, la sua carriera dipende dalle commissioni ufficiali. Per conciliare i favori del potere, bazzica per tutti i circoli politici alla moda e non rifiuta mai una visita che potrebbe rivelarsi fruttuosa. Ad eccezione degli ultimi anni segnati dalla malattia, Delacroix ha un'intensa vita sociale ma ne soffre, ottemperando a questi impegni solo allo scopo di ottenere commissioni.
Sappiamo molto della sua vita per via del “Diario”, il capolavoro letterario del pittore, iniziato nel 1822 e redatto fino alla sua morte nel 1863. Vi annota, giorno dopo giorno, le sue riflessioni sulla pittura, la poesia o la musica, così come la vita politica e parigina a metà del XIX secolo. Riporta le sue passeggiate con le sue amanti, tra cui la baronessa Joséphine de Forget, di cui è stato amante per vent'anni, e i suoi incontri artistici con Chopin, Dumas, Victor Hugo, o Rossini …
Scrive ampiamente delle sue discussioni, dei disaccordi politici con George Sand con la quale mantiene una profonda amicizia romantica. Proprio grazie a George Sand conosce Chopin ne entra in. Un paio di volte è ospite nella loro casa di Nohant dove dipinge la famosa tela “Chopin compone a Nohant”, La tela venne tagliata per ricavarne più profitto, ahimè! La porzione con Chopin oggi è al Louvre, mentre George Sand è al museo Ordrupgaard di Copenaghen.
Il diario è una testimonianza quotidiana non solo della vita del pittore, ma anche delle sue preoccupazioni, dell'andamento dei suoi dipinti, della sua malinconia e dell'evoluzione della sua malattia tubercolare che evita di mostrare ai suoi parenti.
L’unica persona con cui si confida e condivide il quotidiano, compresi i sui malanni è Jenny Le Guillou, assunta come governante nel 1834 e con la quale negli anni si instaura un rapporto di coppia, lontano dalla vita della grande società, l'uno a tutela dell'altro.
Nel 1844 si trasferisce in campagna a Draveil, vicino alla foresta di Sénart, lontano da Parigi dove divampa il colera, e impianta uno studio artisitico. Qui accompagnato dalla fedele Jenny fa lunghe passeggiate in campagna per curare la sua tubercolosi.
Soggiorna regolarmente sulla costa della Normandia a Étretat , Fécamp ma soprattutto a Dieppe .dove dipinge acquerelli e pastelli. Per curarsi con le cure termali si reca a Bad-Ems e Eaux-Bonnes, ma la malattia va avanti.
I suoi ultimi anni sono rovinati dalla salute cagionevole, che lo fa precipitare in una grande solitudine. Le amiche accusano Jenny di essere estremamente gelosa e di allontanare Eugéne dalle frequentazioni anche per interesse personale, alimentando la sua sfiducia negli altri e il suo carattere permaloso.
Nel 1861 termina la sua ultima commissione: affrescare la Cappella degli Angeli presso la Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi. Per realizzarli il pittore si trasferisce in rue Furstenberg, a due passi dalla chiesa.
Lavora per più di dieci anni ai tre affreschi “Giacobbe che lotta con l'angelo”, “l'Espulsione di Eliodoro dal Tempio” e sulla volta “l'Arcangelo Michele che sconfigge il demonio”, che sono il testamento spirituale del pittore. Perfeziona un procedimento a base di cera e pittura a olio per dipingere i suoi affreschi in una chiesa con una grande umidità che distrugge gli affreschi. Termina questo suo ultimo lavoro estremamente malato ed esausto dal lavoro al freddo e dalle condizioni difficili.
Muore “tenendo la mano di Jenny” alle 7 di sera per una crisi di emottisi conseguente alla tubercolosi il 13 agosto 1863. Riposa nel cimitero di Père-Lachaise, in un sarcofago in pietra di Volvic, che secondo la sua volontà, riproduce fedelmente il modello antico della cosiddetta tomba di Scipione.
Amedeo Modigliani (1884-1920)
Modigliani
Fin dalla più giovane età, Amedeo Modigliani non ha mai goduto di buona salute, salute che negli anni della maturità peggiora ulteriormente a causa delle sue abitudine sregolate da artista bohémien.
Si ammala di tubercolosi già a 16 anni e nel 1901 con la madre parte per un viaggio terapeutico a Napoli, Torre del Greco, Amalfi, Capri e Roma. Sebbene parla raramente delle sue condizioni, il pittore sembra essere consapevole che il suo tempo su questa terra sarà breve.
Successivamente il giovane Modigliani si trasferisce a Venezia e si ritiene che qui prova l'hashish per la prima volta, facendo così l’entrata nel decadente stile di vita che perseguì per gli anni a venire e che gli conferisce il titolo di "artista maledetto".
A pensarci anche la sua carriera artistica è stata indirizzata dalla tubercolosi. Infatti Modigliani arrivato come scultore, a Parigi diventa soprattutto pittore, per non subire gli effetti del marmo sulla tubercolosi e per consiglio di una delle sue amanti. Infatti le sue amanti sono donne importanti che lo aiutano a conoscere altre personalità, mentre travolgono i suoi sensi.
Modigliani è tutt’oggi famoso per i suoi dipinti che raffigurano volti e corpi allungati e malinconici, ispirati anche all'arte africana. Il suo stile unico, che prevede la distorsione della figura, viene fortemente influenzato dalla passione per la forma umana e la fisionomia. I suoi dipinti di nudi erotici e i suoi ritratti sono inconfondibili e apprezzati da artisti e gente comune già quando lui è ancora in vita. Per questo motivo non pochi storici pensano che la sua trasformazione auto-imposta in artista impoverito sia il suo modo di nascondere l'entità della malattia. Beve alcol in grandi quantità, assume droghe e spera che tale edonismo riusca a mascherare il suo aspetto ammalato e il suo graduale indebolimento. Il suo comportamento è comunque alquanto sfrenato: l'eccessiva quantità di assenzio e hashish lo porta talvolta a spogliarsi durante le feste. Non vuole che si sappia della sua condizione di tubercolotico per paura di essere compatito, temuto o persino evitato.
Anche durante la sua vita a Parigi deve andare al caldo per curarsi o per lo meno riprendersi dalla malattia. Nel 1918 si reca quindi a Nizza e nel borgo medievale di Cagnes. Il villaggio lo affascina e la luce della Provenza riscalda la tavolozza di Modì che decide di dedicarsi ai paesaggi, le uniche opere paesaggistiche di tutta la sua carriera. Si dice anche che a Nizza incontri Pierre-Auguste Renoir , “giusto per qualche minuto”.
Si ammala infine di una grave polmonite e muore il 24 gennaio 1920 all’ Hôpital de la Charité per la progressione della meningite tubercolare, dopo 5 giorni di deliri, dolori e coma. Ci lascia prematuramente all'età di soli 35 anni, per la tubercolosi aggravata dal suo consumo smodato di alcol e sostanze nocive.
Oggi Modigliani è sepolto al Cimitero del Père Lachaise di Parigi insieme al corpo della sua amata Jeanne Hébuterne, morta suicida il giorno dopo la morte dell’artista insieme al figlio che portava in grembo: era incinta di nove mesi.
Jacques Majorelle (1886-1962)
Majorelle
Lacques Majorelle dopo aver studiato belle arti alle accademie di Nancy e Parigi, nel 1917 comincia a viaggiare per il nord Africa, Spagna e Italia, iniziando a perfezionare la sua pregevole e particolare produzione artistica che si riscatta dalla banale classificazione di “orientalismo” per l’evidente senso di empatia dell’artista con i suoi soggetti che appaiono più spontanei, e per la luce e i colori delle sue opere. E’ ricordato per la sua preferenza per una particolare sfumatura di blu polvere oggi conosciuta con il nomignolo di “blu di Majorelle”.
Malato di tubercolosi, sotto consiglio medico, si stabilisce a Marrakech nel 1923, dove costruisce una villa alle porte della città e in un secondo momento aggiunge i giardini. La splendida villa in stile moresco è decorata in blu cobalto, verde e rosso intenso ed uno studio in stile art déco con diversi pergolati e pareti azzurro brillante. Il giardino è oggi lussureggiante con i vialetti che si intersecano creando aiuole coltivate a fiori tropicali dai colori vivaci. Oltre alla yucca, alla buganvillea, al bambù, ai gerani, all’alloro, all’ibisco e ai cipressi, il giardino ospita oltre 400 varietà di palme e 1800 specie di cactus in parte coltivati all’interno di grandi vasi in argilla giallo accesso o blu cobalto. In uno stagno circondato da papiri navigano le ninfee.
Benché si dedichi al suo giardino per quasi quarant’anni, la gestione è sempre più costosa e nonostante una apertura al pubblico con biglietto d’ingresso, Majorelle nel 1950 vende tutto e in breve tempo il sito cade in abbandono.
Majorelle rientrato in Francia per curarsi dalla tubercolosi muore nel 1962, a seguito delle ferite riportate in un incidente d'auto. Ma il suo nome non verrà dimenticato, anzi.
Nel 1980 il giardino viene scoperto da Yves Saint Laurent che l’acquista e la restaura, bloccando la vendita ad una ditta immobiliare che ne avrebbe fatto un hotel. I giardini vengono visitati dai turisti e i mercanti iniziano ad acquistare i dipinti di Majorelle. Yves Saint Laurent si innamora del luogo, lo definisce “un quadro a cielo aperto, un paesaggio vivente”, tanto che le sue ceneri dopo la sua morte nel 2008 sono state sparse proprio nel giardino.
Se andate a Marrakech visitate i “Giardini Majorelle” e godetevi una passeggiata fra cactus, palme, bambù e piante acquatiche, il tutto immerso nelle ampie pennellate di giallo e di blu, tanto blu, il blu di Majorelle.
Mario Scalesi (1892-1922)
Scalesi
C'è un maledettismo di facciata che è solo artificio letterario, e c'è un maledettismo vissuto sulla propria pelle, quasi una condizione biologica che poi si radica nell' anima.
Un giorno parlando con Salvatore Mugno della mio lavoro su “Pneumokultura” mi disse interessato: “ … ti regalo allora un mio libro su un poeta siciliano vissuto a Tunisi, ed anche lui affetto dalla tubercolosi: una storia che ti affascinerà !”
Mario Scalesi, ritenuto uno dei “padri” della letteratura magrebina di espressione francese,nasce tubercolotico a Tunisi (al numero 31 di via Bab Souika, la strada dei poveri emigrati italiani e maltesi e dei tunisini miserabili) il 16 febbraio del 1892: il suo vero cognome è Scalisi ed è il sesto figlio di una modestissima famiglia di emigrati. Il padre, Gioacchino, sottufficiale della Marina italiana, ha appena lasciato la sua città natale, Trapani, dopo avere avuto problemi giudiziari con un agente di polizia, per trasferirsi clandestinamente a Tunisi; la madre è metà maltese, metà genovese-sarda.
Scrive solo in francese (ma non per sua scelta), in una Tunisia crocevia di genti, lingue, religioni e culture, alla fine del XIX secolo. Tra un’Italia lontana matrigna e la Francia che impone con la forza delle leggi la sua lingua e cultura, Mario non ha scelta. «La tua lingua sarà la tua patria»: lo ripetono sempre tutti gli esuli, ed anche il giovane Mario, che esule non è, ma vive un isolamento che lo aliena da famiglia ed società.
A casa parla solo dialetto siciliano e maltese e non ha la possibilità di frequentare le scuole italiane, già ridotte dall’aggressiva politica del protettorato francese. Per strada non si integra con gli altri ragazzini del suo quartiere nel centro storico di Tunisi e per di più a 5 anni cade da una scala, a casa, e gli si spezza la colonna vertebrale. Sarà l’inizio di un’infermità fisica che lo accompagnerà per tutta la sua breve vita.
L’INCIDENTE
Musa che tu celebri voglio
la banale e vecchia scala
che, spezzandomi la schiena,
mi spinge a non dimenticarla
~ Era Natale, inverno africano~
Andavo su a cercar le carte.
Secondo usanze d' altri tempi,
che si giocassero, soleva,
le torte, fave cotte e noci.
Poco illuminata era la scala.
Felice, io conducevo il gioco,
quando il piede posò nel vuoto
mentre sognavo un cielo azzurro.
Il francese, acquisito a scuola, diventa così la sua patria spirituale: gli «nutre il cervello» facendogli scoprire tutti i suoi tesori letterari. Riesce a frequentare la Scuola primaria francese, ma non può proseguire gli studi per la necessità di guadagnarsi da vivere come contabile, prima nell' officina di un carrozziere e poi nei locali di una tipografia.
Povero, storpio alla maniera di Leopardi, Mario Scalesi fa pure un mestiere che non lo soddisfa. Intorno a lui pian piano il vuoto aumenta e si fa insopportabile: non ha amici, è trascurato dai familiari, diventa il bersaglio delle derisioni dei vicini. Le donne non lo avvicinano, se possono non perdono occasione per umiliarlo. Esce raramente di casa, preferibilmente di notte, quando incontra i fantasmi dell' odio e dell' abiezione. Scalesi è un vero maledetto, messo ai margini dalla società, respinto dai suoi simili, ignorato da chi dovrebbe amarlo. E per di più, è uno che sta dentro un corpo che non vorrebbe. Un corpo prigione, in cui la sua anima in catene fa risuonare un grido lacerante di rivolta e disperazione, che nella sua opera in versi risente dell' influenza di modelli illustri.
LAPIDAZIONE
Ammalato, ho raccontato i miei anni,
gli stessi di un giovane paria in lacrime,
in ogni debolezza saccheggiato,
schernito nei tormenti innumerevoli.
La passione di Mario per la poesia e la sua intensa attività di critico letterario vengono considerate dalla famiglia come manifestazioni della sua eccentricità, interpretata evidentemente come causa delle sue sofferenze e dei suoi disturbi. Il fratello parla dunque di malattia “de la tête” come motivo del trasferimento a Palermo.
Le tante sofferenze, tra cui la tubercolosi e la meningite, condurranno pian piano Scalesi alla demenza. Dopo un breve periodo di ricovero presso l' Ospedale Garibaldi di Tunisi, morirà nel manicomio Vignicella di Palermo, a trent' anni, il 13 marzo del 1922, ormai eroso dalla tubercolosi e dalla demenza, ufficialmente per "marasmo": il suo corpo verrà buttato in una fossa comune del cimitero della città, rendendo sorprendentemente premonitorio uno dei suoi versi:
DE PROFUNDIS
Voglio dormire fra ignoti dormienti
in qualche luogo sotto terra , immerso nei miei sogni.
Un epilogo più maledetto di così non sarebbe proprio immaginabile.
Ho comprato “Les poèmes d’un maudit” nell’edizione curata da Salvatore Mugno un paio di giorni fa. Mi ha colpito il tono profondamente elegiaco, intimo per condizione personale e familiare ed universale per condizione sociale. Ed il tutto scritto in un francese quasi colloquiale, un registro medio per una profondità emotiva sorprendente. L’evocazione del dolore, del bisogno d’amore, della disperazione causata dalla malattia e dalla povertà, è di una potenza straordinaria! E non c’è rabbia, non c’è rancore ma disperazione, rimpianto e rassegnazione.
Roberto Ciaramella - 6 Maggio 2021 - www.lucialibri.it
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