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Gesualdo Bufalino - "Diceria dell'untore" - 1981

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Nel 1981 su insistenza dell’editrice Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino pubblica la sua prima opera “Diceria dell’untore”, iniziata a scrivere nel 1950 e terminata nel 1971. Il romanzo vince subito il Premio Campiello '81, dando enorme notorietà allo scrittore siciliano che così inizia la grande scalata verso il successo ed i maggiori premi letterari italiani, compreso il “Premio Strega” Nel 1990 dal libro verrà tratto un film, per la regia di Beppe Cino, con Remo Girone, Franco Nero, Vanessa Redgrave, Fernando Rey e Lucrezia Lante della Rovere.

La storia è ambientata nel 1946 in un sanatorio vicino Palermo che l’autore non nomina mai nel libro con il vero nome ma con quello di “La Rocca”, l’attuale Ospedale Ingrassia, che si trova in una zona di transito, una volta in aperta campagna, tra Palermo e Monreale detta appunto la Rocca.

 

"Fra la Rocca e la città c' erano solo pochi chilometri, quanti non so, non era facile contarli, mentre si scendeva in tram per l'inflessibile via Calatafimi, così in fretta, quasi ad ogni isolato, si seguivano le fermate. La più comoda era qualche metro più giù dall'ingresso grande, sotto una tettoia di eternit che ci ospitava in attesa, imbottiti di maglie o scamiciati, col mutare delle stagioni, ma impazienti sempre di imbarcarci per la nostra saltuaria Citera. Si scostavano un poco, senza farlo parere, i viaggiatori abituali, all' apparire del nostro drappello  di lazzaroni cupidi e ossuti. Noi portavamo con un impaccio visibile - dopo tanto grigioverde di giubbe – gl'indumenti della vita borghese, su cui avevamo provato poc' anzi, dubbiosamente, le liturgie scordate della vestizione, scoppiando a  piangere all'improvviso nell' atto di accomodare attorno alle  fosse del collo una cravatta d' altri tempi, una bianca sciarpa  da ballo.  Non era da tutti, peraltro, ottenere il lasciapassare da esibire al custode. E il più delle volte ci facevano difetto le forze.  Allora, fra una spedizione e l' altra, ci acconciavamo a  distrarre i sensi in qualche maniera, col pericolo, magari, di  aizzarli ancora di più.  Si cercavano intrallazzi col reparto delle donne, attraverso  lo steccato d' edere e pali che divideva il parco a metà e che, per la sua inettitudine, chiamavamo la Maginot."

 

Nel sanatorio della “Conca d’Oro” sono ospiti dei reduci di guerra che altro non fanno che aspettare la morte. Bufalino ripercorre, tra equivoche confessioni e angosce esistenziali sul filo del sottile confine tra vita e morte, quel tempo smarrito e febbricitante trascorso, nella claustrofilia obbligata, in compagnia di singolari personaggi minati tutti da un senso di condanna e ineluttabilità ma uniti anche da un ultimo afflato di vitalità.

A differenza di Kafka nei cui racconti la tubercolosi non irrompe mai, Bufalino invece parla esplicitamente della malattia, dalle sue esperienze ed emozioni, debitamente trasfigurate, maturate nel sanatorio, e crea il suo capolavoro.

 

"con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo”

. . . . .

"non c’era giorno o notte che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza"

 

Rispetto al canone romantico i personaggi perdono quella carica sensuale, in Thomas Mann quasi erotica, per diventare emblema di un mondo in dissoluzione. Nasce così l’amore per Marta Blundo, una giovane ammalata di tisi e dagli ambigui trascorsi, latrice di un passato oscuro e drammatico, ex-ballerina e chissà quant’altro; un amore puerile, fatto di parole e che finisce con la morte di lei in un alberghetto sul mare, dopo una fuga senza senso.

 

un’esclusa, un’anima persa: giusto la socia che mi serviva

. . . . .

parlava, parlava, ma io non avanzavo di un passo verso il cuore della nebulosa, ch’era lei. 

 

Egli, invece, guarisce, inaspettatamente e quasi colpevolmente; dimesso abbandona i compagni di sventura. Rientrando nella vita di tutti giorni porterà con se per sempre i segni della tragica esperienza e di una familiarità con la sventura.

 

“Non c' era nessuno con me ad attendere, e feci appena in tempo, mentre posavo il piede sul predellino, a volgermi un istante, prima che il veicolo ripartisse, per guardare un'ultima volta, fra pini palme e cipressi, la Rocca.

Mi sarebbe rimasta poi sempre negli occhi così, la vecchia arca in disarmo, senza una luce a bordo né un rumore, se non quello di una tosatrice invisibile che radeva l' erba dietro il garage; così l'avrei sempre rivisto nei miei sogni futuri: un livido colombario di pietra, una carena di bastimento, incagliata per l'eternità fra le radici dei rampicanti, col suo carico d' annegati.”

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il Sanatorio nel dopoguerra

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l'ospedale "Ingrassia" oggi

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il padiglione degenza visto dal lato posteriore

pianta del sanatorio

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