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Nato da una famiglia dell’alta borghesia illuminata, si laureò in medicina, senza esercitare, perché le sue condizioni economiche gli permettevano di non lavorare. Si dedicò invece alle sue passioni, la pittura e la politica.

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La vita di Carlo Levi fu profondamente segnata dall’anno trascorso al confino, in Lucania, precisamente ad Aliano, allora Agliano (nel libro Gagliano, come era pronunciato dai locali). Da quei giorni interminabili è nato il suo libro più noto, “Cristo si è fermato a Eboli”. Scritto nel dicembre ’43, l’opera è un classico esempio di commistione di generi letterari. È un reportage — su una terra che allora era remota — che contiene una forte denuncia politica e sociale delle condizioni di estrema arretratezza in cui versava la classe contadina dell’Italia fascista.

L’arrivo nel piccolo centro lucano è per Levi uno dei momenti più desolanti della sua vita. Abituato al tenore di una grande città ed agli stimoli culturali di Torino, si ritrova immerso in uno scenario opposto. Ad aspettarlo, diffidenza, miseria e solitudine. Agli occhi della gente era un “conquistatore”, essendo Piemontese, in una terra di “conquistati”. Inoltre i conquistatori che in quel momento rappresentava non avevano portato l’emancipazione desiderata. La situazione quindi non era ideale, ma Levi, da piemontese, non si lasciò scoraggiare, cercò piuttosto di capire cosa stava accadendo intorno a sé. Per Levi comprendere e fermare una situazione significava dipingere, la sua prima passione, il che lo si vedeva fare spesso nei pressi del cimitero di Aliano. Certo i momenti di sconforto non mancavano perché l'inattività a cui era costretto doveva essere difficile da affrontare.

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Inizialmente non voleva esercitare la professione medica perché in pratica non l’aveva mai fatto. Inoltre i medici della zona gli mettevano i bastoni fra le ruote. Le cose presto cambiarono. I timori si stemperarono come neve al sole di fronte alle esigenze della popolazione.

 

“Tu sei il dottore che è arrivato ora? – mi chiesero- Vieni, che c’è uno che sta male”. Avevano saputo subito in Municipio del mio arrivo, e avevano sentito che io ero un dottore. Dissi che ero dottore, ma da molti anni non esercitavo; che certamente esisteva un medico nel paese, che chiamassero quello e che percio non sarei venuto. Mi risposero che in paese non c’erano medici, che il loro compagno stava morendo. –Possibile che non ci sia un medico? – Non ce ne sono -. Ero molto imbarazzato: non sapevo davvero se sarei stato in grado, dopo tanti anni che non mi ero occupato di medicina, di essere di qualche utilità. Ma come resistere alle loro preghiere? Uno di essi, un vecchio dai capelli bianchi, mi si avvicinò e mi prese la mano per baciarla. Credo di essermi tratto indietro, e di essere arrossito di vergogna, questa prima volta come tutte le altre poi, nel corso dell’anno, in cui qualche altro contadino ripeté lo stesso gesto. Era implorazione, o un resto di omaggio feudale. Mi alzai e li seguii dal malato

 

Forse l’essere medico lo aveva portato, nonostante tutto, ad avvicinarsi alla gente, a capirla, a conoscerla bene. Lo si intuisce ancora oggi visitando i luoghi del suo confino. Da allora il paese si è ovviamente trasformato ma, molti dei problemi che Levi ha descritto restano. La questione meridionale non è più quella di allora, ma è mutata solo nei termini. Tuttavia si percepisce che Levi è ancora presente. Nelle parole della gente, dei ragazzi, dei giovani, che vedono nella casa dove ha vissuto non solo il relitto di un passato ma una denuncia e il segno di una possibilità di riscatto da una condizione.

 

La notorietà di Levi come scrittore è da attribuire al libro che scrisse in seguito al confino. Ma se questa opera non avesse mutato il corso della sua vita probabilmente ora lo ricorderemmo esclusivamente come pittore. Nel 1924 alla Biennale di Venezia. Alla fine degli anni venti Levi aderisce al Gruppo dei Sei, pittori di Torino, e conduce un’aspra critica all’accadentismo nazionalistico del Novecento. L’esperienza del confino deve essere considerata fondamentale anche nell'ambito artistico. Le figure lucane che descrive nel ’36 lo porteranno nel 1954 ad approdare al gruppo neorealista nella Biennale di Venezia.

Muore a Roma il 4 gennaio 1975. Ottemperando alle sue ultime volontà, la sua salma fu trasportata ad Aliano, dove giace nel cimitero presso il quale lo si vedeva aggirarsi con cavalletto e colori.

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