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dott. Giuseppe Di Marco
Specialista in malattie respiratorie
Diagnosi e cura delle malattie allergiche
"II vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s'accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre".
Italo Calvino - Marcovaldo - 1963
Forse nascere mentre infuria un conflitto come la Grande Guerra non dà molte chance al destino, o forse del medesimo è un brutto scherzo, fatto sta che nel 1940, dopo la laurea in Medicina conseguita a Bologna e la scuola allievi ufficiali degli alpini, il vicentino Bedeschi si arruola come volontario e parte come sottotenente medico per la campagna di Grecia. Nel suo curriculum bellico, però, entra ben presto la devastante campagna di Russia, dopo il suo trasferimento alla brigata alpina Julia, e grazie al fatto che fu uno dei pochi sopravvissuti, oggi possiamo leggerne il miglior resoconto che ne sia mai stato scritto e cioè il suo capolavoro, "Centomila gavette di ghiaccio".
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"La popolazione russa ben presto s’era istintivamente accostata agli alpini; la gente d’Ucraina aveva trovato via d’intesa con gli uomini dalla penna nera e si mostrava larga di simpatia e di attenzioni verso quei ragazzi gioviali; offriva spontanea ospitalità nelle isbe e si intratteneva volentieri a conversare fino a tardi".
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Eppure il romanzo all’inizio non ebbe una grande fortuna: scritto di getto al termine della guerra, ultimato nel 1948 e riscritto dopo che la prima stesura andò perduta nell’alluvione del Polesine, incassò ben sedici rifiuti da altrettanti editori prima che Mursia ebbe “il coraggio” di darlo alle stampe nel 1963. Perché “Centomila gavette di ghiaccio”, uno dei maggiori bestseller del XX secolo, la testimonianza capolavoro scritta da Giulio Bedeschi sulla ritirata di Russia, venne pubblicato soltanto nel 1963?? Insensibilità e scarsa professionalità degli editori che non annusarono la qualità di un libro che avrebbe venduto ben quattro milioni di copie? Oppure c’era un altro motivo dietro quei rifiuti?
Probabilmente un motivo c’era ed era politico. Aveva a che fare con il passato fascista e repubblichino di Bedeschi, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si mise a capo della XXV Brigata Nera Capanni di Forlì – una delle più numerose dell’epoca, con circa ottocento uomini – che sciolse dopo il 25 aprile, per poi darsi alla macchia e riapparire solo qualche anno dopo, che faceva il medico in un ospedale di Ragusa, in Sicilia. Di quel periodo Bedeschi non volle mai parlare, non c’è traccia nei libri autobiografici, e ancora alla sua morte, nel 1990, la moglie, interpretando le volontà del marito, disse che i tempi non erano maturi per scoprire un velo su quel periodo.
Non solo Gunther Grass, dunque, non solo lo storico Roberto Vivarelli, ma anche Giulio Bedeschi hanno preferito tenere segreta quella loro esperienza a fianco del nazifascismo.
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Forse è vero quanto scrisse Carlo Mazzantini dopo le rivelazioni su Gunther Grass: che se la giovanile adesione al nazismo del Nobel tedesco fosse venuta prima, Grass non avrebbe avuto il sucesso che ha avuto, o forse avrebbe avuto maggiori difficoltà a superare l’ostracismo contro chi proveniva da determinate esperienze. Di certo nel dopoguerra ci fu (comprensibilmente e giustamente) il rifiuto di un certo tipo di cultura e di politica. Ma con esso si persero brandelli di verità. L’umanissimo sottotenente medico Italo Serri, alter ego di Bedeschi, sarebbe stato così amato da milioni di italiani di ogni credo politico se avessero conosciuto il passato “nero” dell’autore?
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Recentemente un’inchiesta su documenti d’epoca condotta dal quotidiano Avvenire, ha fatto un po’ di luce sulle attività del Bedeschi gerarca e comandante militare: nell’imminenza dell’arrivo del fronte in Romagna – che sarà poi liberata nel novembre 1944 – lo scrittore si occupava piuttosto di trasferire le famiglie fasciste più a nord, si opponeva ai saccheggi dei tedeschi, sorvegliava la trebbiatura per evitare che il grano venisse imboscato. Nessun arresto, sembra, nessuna azione di polizia, nessun crimine apparente, ma la verità, spesso, in tempo di guerra, è dura da accertare. Confermata, invece, la sua vena propagandistica: aveva ideato un foglietto per i militi della brigata, che naufragò dopo il primo numero, mentre numerose sono le testimonianze delle sue prove giornalistiche in favore del regime.
Una volta libero e completamente affrancato dal suo passato, quando ormai anche il suo primo romanzo aveva vinto il Premio Bancarella, Bedeschi ne scrisse il seguito, Il peso dello zaino, e poi via, sulla scia della memoria che a volte come una carezza calda, più spesso come uno schiaffo gelido, detta al cuore e alla mano con la veemente voce dell’esperienza, furono pubblicati: "La rivolta di Abele", "Gli italiani in Russia", "Nikolajewka: c’ero anch’io", "Fronte greco-albanese: c’ero anch’io", "Fronte d’Africa: c’ero anch’io", "Fronte russo: c’ero anch’io", "Il Corpo d’Armata Alpino sul fronte russo". Tutti romanzi a metà strada tra il mondo della narrazione e il diario di guerra, che molto hanno rivelato dell’atrocità del secondo conflitto mondiale, ma anche dell’assurdità della guerra come mezzo per risolvere i dissidi umani, oltre al loro indubbio valore letterario.
Ma siccome Bedeschi, oltre a essere medico e scrittore, si sentiva anche molto “alpino”, nel 2004, postumo, esce Il segreto degli alpini, curato dalla moglie Luisa Vecchiato Bedeschi, che viaggia sull’onda della commozione frugando tra i ricordi del marito, gli aneddoti di sempre, ma soprattutto sulle affettuose, toccanti lettere che le spediva dal fronte russo, pressoché insostituibile testimonianza storica di un orrore che inghiottì molte famiglie italiane, mai veramente dimenticato neppure da chi ebbe la fortuna di tornare.
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