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dott. Giuseppe Di Marco
Specialista in malattie respiratorie
Diagnosi e cura delle malattie allergiche
"II vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s'accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre".
Italo Calvino - Marcovaldo - 1963
Luigi Prandello - "L'uccello impagliato" - 1922
L’uccello impagliato è una mirabile storia di Luigi Pirandello che fa parte della raccolta “Novelle per un anno” e pubblicata per la prima volta in modo organico nel 1922.
Il racconto indaga sui concetti di destino e di sorte e per esplorare questo aspetto della vita umana utilizza la tubercolosi, una malattia che allora non era possibile prevenire e che non prevedeva scampo per gli sventurati ammalati.
In realtà la definizione di ‘Destino’ si riferisce a un ‘risultato predeterminato o preordinato’; mentre ‘Sorte’, che ha un significato simile, implica anche un ‘risultato inevitabile’, spesso di natura avversa.
In tutta la sua produzione Pirandello mette in luce il dramma dell’uomo contemporaneo, frammentato, senza certezze, alla ricerca di un ideale che ricomponga la sua «unità perduta». Proprio negli anni in cui Freud rivoluziona la psicologia, Einstein introduce la relatività, Picasso inserisce la dimensione spazio-temporale dando avvio al cubismo analitico, il grande genio di Pirandello descrive la «perdita della centralità dell’uomo, l’avvento del relativismo culturale e l’affermazione dell’homo technologicus. Il genio siciliano comprese la cultura contemporanea tanto da anticiparne e coglierne gli sviluppi.
Molti dei personaggi intraprendono la strada della ricerca di una libertà al di fuori di condizionamenti familiari, lavorativi, sociali. Così come Mattia Pascal si sbarazza del suo nome, convinto di poter essere artefice del suo destino e Serafino Gubbio, l’homo technologicus che comunica attraverso la telecamera, si riduce alla fine all’afasia e all’incomunicabilità totale, così i fratelli Picotti vivranno una non-vita per sfuggire al loro destino di contrarre la tubercolosi.
L’uccello impagliato narra di una situazione surreale: due fratelli facenti parte di una famiglia di tisici in cui tutti sono morti giovani decidono di limitare la loro vita al fine di sopravvivere più dei loro cari estinti. Sopravvivere, appunto, perché si limitano così tanto da ridursi a condurre una non-vita scandita da ritmi regolari sempre uguali. Questa scelta comporta ai due fratelli molte costrizioni, tra cui una dieta controllata, l'assunzione di corroboranti, l'ora di coricarsi e levarsi, la possibilità o meno di uscire a passeggiare i pomeriggio. Tutta la novella ha come protagonista sotterraneo un uccello impagliato, che resta estraneo alla vicenda ma che è comunque un monito alla transitorietà delle cose umane.
Tranne il padre, morto a cinquant’anni di polmonite, tutti gli altri della famiglia – madre e fratelli e sorelle e zie e zii del lato materno – tutti erano morti di tisi, giovanissimi, uno dopo l’altro.
Una bella processione di bare.
Resistevano loro due soli ancora, Marco e Annibale Picotti; e parevano impegnati a non darla vinta a quel male che aveva sterminato due famiglie
Si vigilavano l’un l’altro, con gli animi sempre all’erta, irsuti e punto per punto, con rigore inflessibile seguivano le prescrizioni dei medici, non solo per le dosi e la qualità dei cibi e i varii corroboranti da prendere in pillole o a cucchiai, ma anche per il vestiario da indossare secondo le stagioni e le minime variazioni di temperatura e per l’ora d’andare a letto o di levarsene, e le passeggiatine da fare, e gli altri lievi svaghi compatibili, che avevan sapore anch’essi di cura e di ricetta.
Così quando un giorno Annibale stanco della non-vita si innamora di una ragazza e la sposa, il fratello Marco, chiaramente contrario, pretende che gli sposi vadano ad abitare in un'altra casa e che quella paterna rimanga solo a lui, insieme al mobilio della sua camera da letto e ad un antico uccello impagliato, simbolo di buon augurio e portafortuna.
Ma cambiando vita Annibale si ammala e muore.
Marco invece arriva a sessant’anni, ma senza aver vissuto e senza però aver contratto la tisi. In lui nasce e cresce l’odio per la vita, sviluppato in tanti anni di non-vita. Comincia a mangiare smodatamente tutti i cibi, sente disgusto, schifo, nausea per il suo corpo, che, da debole, malato e preservato solo con le medicine, è diventato sano, forte e “ben conservato” come l’antico uccello impagliato.
Decide di togliersi la vita. Ma prima di puntarsi la rivoltella alla tempia, con un temperino distrugge il grosso uccello: lo scempio di questo oggetto inanimato, prima ritenuto importantissimo simbolo di longevità, assurto a metafora del corpo solido di Marco, prelude all’annientamento del suo peso ingombrante, interpretando la paglia al suo interno come simbolo della propria vuotezza interiore.
Poi si punta una rivoltella alla tempia e si spara.
Arrivò così ai sessant’anni.
Allora la tensione, in cui per tanto tempo aveva tenuto lo spirito, d’un tratto si rilasciò.
Marco Picotti si sentì placato. Lo scopo della sua vita era raggiunto.
E ora?
Ora poteva morire. Ah, sì, morire, morire: era stufo, nauseato, stomacato: non chiedeva altro! Che poteva più essere la vita per lui? Senza più quello scopo, senza più quell’impegno – stanchezza, noja, afa.Si mise a vivere fuori d’ogni regola, a levarsi da letto molto prima del solito, a uscire di sera, a frequentare qualche ritrovo, a mangiare tutti i cibi. Si guastò un poco lo stomaco, si seccò.molto, s’indispettì più che mai della vista della gente che seguitava a congratularsi con lui del buono stato della sua salute.
L’uggia, la nausea gli crebbero tanto, che un giorno alla fine si convinse che gli restava da fare qualche cosa; non sapeva ancor bene quale; ma certamente qualche cosa, per liberarsi dell’incubo che ancora lo soffocava. Non aveva già vinto? No. Sentiva che ancora non aveva vinto.
Glielo disse, glielo dimostrò a meraviglia quell’uccello impagliato, ritto lì su la gruccia da pappagallo tra le due scansie.
– Paglia… paglia… – si mise a dire Marco Picotti quel giorno, guardandolo. Lo strappò dalla gruccia; cavò da una tasca del panciotto il temperino e gli spaccò la pancia:
– Ecco qua, paglia… paglia…
Guardò in giro la camera; vide i seggioloni antichi di finto cuojo e il divano, e con lo stesso temperino si mise a spaccarne l’imbottitura e a trarne fuori a pugni la borra, ripetendo col volto atteggiato di scherno e di nausea:
– Ecco, paglia… paglia… paglia…
Che intendeva dire? Ma questo, semplicemente. Andò a sedere davanti alla scrivania, trasse da un cassetto la rivoltella e se la puntò alla tempia. Questo. Così soltanto avrebbe vinto veramente.
E così il personaggio di Pirandello che perso il confronto col proprio destino stravince invece partita con la morte. La batte una prima volta riuscendo a vivere nonostante il lungo assedio di lei, e poi, una seconda volta, uccidendosi di propria volontà, per non darle mai più partita vinta.
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