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Savlatore Satta - "La veranda" - 1930

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Nel 1981, alcuni anni dopo la morte del suo autore Salvatore Satta (1902-1975) famoso avvocato ed autore de “il giorno del giudizio”, il manoscritto da “La Veranda” veniva ritrovato tra i documenti del suo studio legale. In realtà l'opera era stata presentata attorno al 1930 ma non fu mai pubblicato perché estremamente duro e troppo crudo nell'avvicinare la realtà.

La storia si svolge all’interno di un sanatorio e ricalca l'esperienza vissuta dal giovane Satta; la veranda in questione è quella nella quale si ritrovano gli ospiti per giocare a carte, darsi conforto o più spesso sconforto reciproco, ricordare i tempi andati e l’esistenza fuori da quelle mura. Il protagonista è un giovane avvocato che, malato di “tuba”, tra una “pipa” (termometro) e una “bomboniera” (sputacchiera), osserva un microcosmo e lo rappresenta restituendocelo come lirica metafora dell’umanità.

L'opera fa pensare ad una controparte italiana della "Montagna incantata" di Thomas Mann, che sicuramente ha influenzato il Satta, ma i personaggi intorno a lui non sono borghesi, esseri sensibili colpiti dal male canonico, ma una schiera di relitti provenienti dalle più varie zone d’Italia, uniti da una comunanza nella noia e nella paura. Non si chiamano neppure per nome, ma con quello delle rispettive città, come commilitoni della morte. È un mondo a parte, con i suoi riti, il suo gergo, le sue vittime, i suoi intrighi. Figura di spicco quella del Melanzana, un pover’uomo che non riesce a morire , diventa il genio tutelare del luogo, e soprattutto vive una condizione di di «offensiva confidenza con la morte». Anche la storia d’amore tra il protagonista e un'altra malata è oppressa da un senso di precarietà e terrore.

Il tema del romanzo è la sofferenza dell’autore, protagonista e narratore, e quella degli altri. Salvatore Satta, non cadendo nella retorica o nel melodramma, riesce a condire tutto con una delicata ironia, pur affrontando temi tutt’altro che allegri come la malattia e la morte, che aleggia su tutti i personaggi.

Il sanatorio è un mondo a sé, i contatti con il mondo esterno sono saltuari e spesso non graditi dai malati, quando si riducono a una sterile manifestazione di pietà da parte dei “sani”. All’interno di questo mondo chiuso, poi, ritroviamo le meraviglie e le malvagità del quotidiano. Dall’anelito verso l’amore, di difficile appagamento, alle vessazioni nei confronti dei più deboli di carattere, dall'insofferenza all'estremo bisogno dell'altro, alle diverse reazioni di fronte alla malattia.

Se pensiamo ai romanzi italiani di quegli anni, questo romanzo autobiografico si distacca subito per la sua crudezza nel descrivere la realtà dolorante della vita nel sanatorio, specchio specchio dell’atteggiamento nei confronti dell’esistenza.

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“Non ci possiamo vedere gli uni con gli altri, eppure non si riesce a immaginare la veranda senza che ciascuno sia là al suo posto tutte le mattine, con la sua faccia solita, a testimoniare della solita vita …... Se uno di questi paesi o città che mi stanno accanto se ne andasse difilato in seno a Belzebù, vi assicuro che non ne proverei, per lui, il più piccolo dispiacere …. Ma ora, il pensiero che quella stessa persona non sia là, a soddisfare le esigenze della mia abitudine, mi turba alquanto, e mi fa sentire la sua assenza, per quando se ne sarà andata. Capita lo stesso fra i carcerati, dicono; o piuttosto, a pensarci bene, tutta la vita è così: dovunque, nella casa e nella famiglia, nel paese e nella città, nell’affetto e nell’amicizia, e fin nell’amore, noi affondiamo nella consuetudine, come l’albero le sue radici nella terra; e il dolore, prima che ogni altra cosa, è una ferita alla consuetudine.

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Ma è più suggestione che altro, in fondo. Perché poi, quando se ne sono andati davvero, ci si accorge che non hanno lasciato traccia negli animi, nei cuori, nelle cose, più di quanto le loro parole nella memoria. Svaniscono, si può dire; e i nuovi che vengono senza posa a prenderne il posto (ma dove li fabbricano, tutti questi malati?) aderiscono così esattamente alla lacuna che quasi non ci si accorge del mutamento. Varese l’altro giorno mi disse, come per un’improvvisa scoperta: «Ha osservato che in tre mesi una buona metà sono già cambiati?” … Cambiati: partiti, morti? Chissà…! Ma nessuno se lo chiede, perché in fondo, qui come altrove, partire e morire sono due apparenze indifferenti e concrete di questo eterno succedersi, che è la sola realtà della vita».

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