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dott. Giuseppe Di Marco
Specialista in malattie respiratorie
Diagnosi e cura delle malattie allergiche
"II vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s'accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre".
Italo Calvino - Marcovaldo - 1963
Bruno Schulz - "Il sanatorio all'insegna della clessidra" - 1937
Nato nel 1892 a Drohobycz, nella Galizia polacca, oggi Ucraina, Bruno Schulz è tra i principali protagonisti della letteratura polacca del Novecento, scrittore, artista, disegnatore dal carattere schivo e sfuggente, dalla personalità probabilmente intricata e da una geniale capacità di tradurre in parole e immagini tanto la realtà quanto l’immaginazione. Schulz non si allontana quasi mai da Drohobycz, dove conduce un’esistenza riservata e difficile, dominata dall’imponente figura di un padre eccentrico e avventuriero e costellata dai difficili rapporti con le sue, peraltro non poche, donne, ma sviluppando nonostante tutto la capacità di raccontare un intero mondo al tempo stesso autobiografico e fantasioso.
Nel 1920 pubblica il “Libro idolatrico”, una sorta di autobiografia per immagini dove il suo autoritratto, reso grottesco e deforme, appare spesso ai piedi di donne sensuali e affascinanti, simbolo di una femminilità maliziosa, vagamente perversa e dominatrice.
I suoi racconti: “Il sanatorio all'insegna della clessidra” (1937), il più famoso “Le botteghe color cannella” (1933) e tutti gli altri sono basati sui ricordi di un'infanzia trasfigurata in una proiezione fantastico-mitica, al cui centro troneggia la figura demiurgica del padre-mercante, sapiente e mago. La prosa è originalissima, metaforica, oscillante fra la deformazione grottesca della realtà di tipo espressionista e la visione onirica surrealista, la poetica fantasiosa e variopinta dell’ebraismo yiddish, e piena di richiami letterari e artistici, da Chagall a Kafka, di cui Schulz tradusse nel 1936 “Il castello”.
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“Il sanatorio all’insegna della clessidra”, è un racconto illustrato da disegni dello stesso Schulz. dove la clessidra rappresenta contemporaneamente la morte ed il fluire del tempo. L’io narrante Józef va a far visita al padre, vecchio mercante ebreo di stoffe, in un sanatorio dove è stato ricoverato dopo la morte. Ma, grazie all’espediente relativistico che l’istituto si trova in un non ben definito tempo anteriore, rispetto a quello del resto del mondo, il padre, ancora vivo, avrebbe perfino la possibilità di guarire del male che lo ha spento.
il padre Jakub ha riaperto il negozio di stoffe (“non c’è ancora insegna ma anche così lo trovi di sicuro”) e Józef lo vede arrampicarsi con l’energia di una volta tra gli scaffali, svolazzare da un angolo all’altro, esibire la merce, dare ordine agli aiutanti, rivelatisi indolenti e scansafatiche, rimproverare con le parole di sempre il figlio che si smarrisce in fantasie erotiche, rimanendo tutto il tempo a guardare le donne piuttosto che mettersi a servizio dell’infermo genitore
Per Schulz, assetato di libertà, ossessionato dalla vastità del tempo reale, finito, ma “pronto ad assorbire qualsiasi cosa voglia esistere”, il tempo della letteratura, infinito, parallelo, e ciclico, rappresenta “un rifugio mitico”.
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La villa polverosa e cadente che ospita il sanatorio è una sorta di asilo per anziani e, allo stesso tempo, un museo e un magazzino. E’ un edificio magico che sembra rappresentare una sorta di continuum tra vita e morte, dove il tempo è scandito tra i ricordi e i sogni dei personaggi-– e dove ognuno ha il potere di ripercorrere in maniera illogica la propria esistenza: “noi riattiviamo il tempo trascorso, con tutte le sue possibilità”.
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“I fatti comuni sono schierati nel tempo, allineati lungo il suo corso come su un filo. Là essi hanno i loro antefatti e le loro conseguenze, che si affollano e si susseguono senza tregua, né interruzione. (…) Che fare, invece, degli avvenimenti che non hanno il loro posto nel tempo, degli avvenimenti verificatisi troppo tardi, quando ormai l’intero tempo è stato distribuito, suddiviso, ripartito, e che ora sono rimasti in certo modo per aria, non incolonnati, sospesi, vaganti e senza dimora?”
Sennonché, nel famoso sanatorio accadono cose strane, manca la distinzione fra il giorno e la notte, i pazienti dormono continuamente, in un’aura pallida che fa pensare all’ade degli antichi: ed il protagonista, pentito di averci portato il padre, nota che questo tempo non è genuino, ma al contrario è un tempo malandato, pieno di buchi, usato già da altri, un tempo “di seconda mano”.
Non si può dire che abbiamo avuto un’idea felice mandando qui mio padre, attratti da una rumorosa propaganda. Retrocessione del tempo… effettivamente suona bene, ma a che cosa corrisponde in realtà? Arriva forse qui un tempo pienamente valido, onesto, un tempo in certo senso appena svolto da una pezza fresca, odoroso di novità e di tinta? Tutto il contrario. È un tempo usato, consumato dagli altri, un tempo logoro e bucherellato in più punti, trasparente come un setaccio. Niente di strano, questo è un tempo vomitato – non vorrei mi si fraintendesse – un tempo di seconda mano. Che tristezza, mio Dio!...».
Il protagonista ritrova lì dentro tanti personaggi, tra cui i suoi genitori, se stesso bambino, Garibaldi, l'imperatore Francesco Giuseppe. Aggirandosi per i misteriosi corridoi della memoria, rivive tutto ciò che ha già vissuto, torna nei luoghi della sua infanzia, per ritrovarsi alla fine in un macabro teatro di ragnatele e vermi.
Schulz si appropria interamente di Franz Kafka, mutuando dalle sue pagine sia il motivo della metamorfosi che il tema della “caduta”, della frattura con il mondo reale, reso astratto e inospitale, con uomini e cose ridotte a parvenze, ombre allucinate, come traspare anche nei disegni dell’uno e dell’altro.
In una lettera che Schulz spedisce all’amico Andrzej Plésniewicz nel ’36, si legge:
“Il genere d’arte che mi sta a cuore è appunto la regressione, è l’infanzia reintegrata. Se fosse possibile riportare indietro lo sviluppo, raggiungere un’infanzia reintegrata, sarebbe l’avverarsi ‘epoca geniale’. Il mio ideale è di “maturare” verso l’infanzia. Solo questo sarebbe l’autentica maturità”.
E qui in questo universo brulicante di apparizioni, di esplosioni visive, di visionarietà oniriche e fortemente iconografiche oscillanti fra Brughel e Hyeronimus Bosch, fatto di creazioni fantasmagoriche, di immagini che si incastrano in altre immagini, Schulz compie il miracolo di mantenere vivo il fanciullo che è in lui e nel fare questo crea il suo corrispettivo artistico e cioè la poesia.
Durante l’occupazione nazista, Bruno Schulz rifiuta l’aiuto degli amici, disposti a fargli avere documenti falsi per nascondere le sue origine ebraiche, e sceglie di rimanere con la madre nel ghetto in cui sono stati trasferiti, dove lavora come affrescatore a servizio di un ufficiale nazista. La sera del 19 novembre 1942 mentre torna a casa stringendo a sé un tozzo di pane di segale, viene ucciso per strada, così per gioco, da un ufficiale nazista. Se ne va un altissimo esponente del patrimonio culturale europeo, testimone della singolare poliedricità etnica e linguistica presente all’epoca in Polonia, una dimensione magica e irripetibile che finì per essere completamente distrutta dalla guerra.
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