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25 anni dopo "Senilità", quando ormai sembrava essere sceso fatale l'oblio su Italo Svevo, al secolo Ettore Schmid, ricco commerciante triestino e scrittore praticamente scomparso dalle cronache letterarie, ecco nel 1923, “La coscienza di Zeno”.
La narrazione di questa sua nuova opera, una introspezione psicoanalitica dell’atavica abulia del quasi autobiografico protagonista, l’ipocondriaco Zeno Cosini, fece riconoscere a critici e commentatori europei singolari parentele e interessanti prossimità con Joyce e Proust, anzi, venne anche giudicato come precursore di Joyce e Proust. Ma dovette arrivare, nel 1925, Eugenio Montale. In un articolo riaccese subito lo svogliato interesse della critica italiana, la quale gli si accodò nel collocare Italo Svevo tra i grandi della letteratura del Novecento.

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"Sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perchè è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente". 

Il romanzo analizza la coscienza dell’annoiato Zeno, e la sua malata deformazione della realtà. Uomo triste stanco e incapace di vitali azioni e di generose iniziative, Zeno trova fugace risveglio di consolanti felicità in qualche desiderio di gonne e, soprattutto, nel vizio del fumo. Vizio perfetto. Un vizio che non appaga mai. Consunta una sigaretta, si riaccende il bisogno di farne fuori un’altra. Sì, è un vizio perfetto. Monumentale mitica gioiosa inappagabile sigaretta. Lenisce, consola, e, finalmente, dà un senso alla vita di Zeno.
Ma sì, tra una sigaretta e l’altra, decide perfino di sposarsi. Ama le avvenenti sorelle Malfenti, ma si unisce proprio ad Augusta, quella che meno gli piace, mentre Ada, la più desiderata, va sposa a Guido, cialtronesco e inaffidabile, che non fatica a convincere Zeno a mettersi con lui in un’azienda catastroficamente fallimentare. A Zeno non importa più di tanto. E, tra una sigaretta e l’altra, si fa, pieno di scrupoli e di rimorsi, una giovane amante, una povera ragazza, della quale farà presto a stancarsi, mentre il socio Guido fingerà un patetico suicidio che, invece, meglio che non gli affari, gli riuscirà per davvero.
Questa, in sintesi, la trama del romanzo, dove si immagina Zeno che scrive in un diario i suoi malesseri, consigliato dal suo medico, per aiutarlo così a riconoscere la propria accidiosa inutilità, a spingerlo fuori dalla sua abulica indifferenza.

Il capitolo terzo della Coscienza di Zeno riguarda il vizio del fumo del protagonista, una dipendenza sviluppata fin da ragazzino e sempre combattuta senza successo. Zeno ricorda la sua prima sigaretta fumata da adolescente, inizialmente rubando i soldi al padre poi, dopo essere stato scoperto, fumando i suoi sigari avanzati. A vent’anni Zeno si accorge di odiare il fumo e si ammala, ma nonostante la malattia decide di fumare un’ultima sigaretta; ed è qui che si evidenzia per la prima volta la vera malattia psicoanalitica del protagonista. Inizialmente il fumo è per Zeno una reazione al rapporto con il padre - i cui rapporti saranno sviscerati nel capitolo La morte di mio padre - poi si allarga a forma di difesa verso la realtà circostante e il mondo intero. In tal senso, ogni tentativo di smettere di fumare non è che uno stimolo ulteriore al desiderio, tanto più se il complimento per la propria perseveranza viene da una figura come quella del padre: 

Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine [...] Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:

- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!

Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta.

 

Da qui nascono i continui e vani tentativi di smettere di fumare, perché, come ammette Zeno, “quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo”. Le giornate di Zeno finiscono "coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più”. La vicenda del fumo viene affrontata sempre con una prospettiva ironica e demistificante, raggiungendo i migliori esiti nel momento in cui viene presentata la sigla "u.s. (ultima sigaretta)". Questa sigla e la data vengono apposte su libri, diari, agende, muri e qualsiasi cosa passi sotto mano al protagonista:

Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne in quel luogo degli altri.

 

Ma la malattia del fumo si rivela essere in realtà un'altra "malattia della volontà", cioè l’incapacità di Zeno di perseguire un fine, e riflette il senso di vuoto nella sua vita, scaturito dalla impossibilità di affrontare l’esistenza e il mondo. Ed è proprio questa l’inettitudine, descritta da Svevo, caratteristica dei suoi romanzi a partire da Una vita. La voce narrante (e giudicante) della Coscienza vede nella sigaretta un sintomo della propria inettitudine, di cui però non vuole disfarsi né superare, perché essa costituisce una sorta di autogiustificazione e alibi alla propria incapacità esistenziale:

Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente.

 

L’inettitudine di Zeno riflette una dimensione più profonda della riflessione di Svevo sull’uomo, che verrà rivelata solo nella conclusione del romanzo: la malattia del protagonista è comune in realtà a tutti gli uomini che vivono nella società contemporanea, alienante e contraddittoria. Il solo modo possibile per affrontarla è mantenere un distacco ironico, che faccia emergere la comicità dell’esistenza stessa. Ed è proprio l’ironia la risorsa conoscitiva centrale nel capitolo sul fumo: la distanza, sottilmente percepibile, tra ciò che Zeno dice e ciò che il lettore capisce è cruciale per decifrare la usa "malattia". Lo si vede bene nell’episodio del ricovero di Zeno in clinica per smettere di fumare. Zeno si fa rinchiudere volontariamente ma, una volta in clinica, decide di scappare, corrompendo l’infermiera Giovanna con una bottiglia di cognac e una promessa di rapporto sessuale. L’intera vicenda viene narrata con intenti comici, ma rileva le dipendenze e le ossessioni dell’uomo moderno, caratterizzato da un profondo senso di solitudine di fronte a un mondo malato, egoista e contraddittorio.

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Il senso finale del libro sembra niente affatto essere l'elogio della cura e della salute, quanto proprio quello di un'apologia convinta della malattia come un contenuto capace di illuminarci sulla più vera e profonda nostra realtà di uomini ormai irrimediabilmente vecchi, il cui unico riscatto sembra essere affidato appunto alla consapevolezza ironica di tale condizione, alla coscienza, insomma, che funziona così da mastice fra i vari capitol

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