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La Tubercolosi nella pittura moderna

Rojas

Il pittore venezuelano Cristobal Rojas, grazie a una borsa di studio del governo pari a 50 pesos ogni mese, all'inizio del 1884 si trasferisce a studiare a Parigi, e inizia a sperimentare lentamente diverse tendenze e tecniche pittoriche che vanno dal post-romanticismo all'impressionismo. Malinconico e con un temperamento incerto, Rojas è stato ispirato da esempi di opere d'arte che ha scoperto durante le sue continue visite al Louvre . 

Tra il 1886 e il 1889 ho esposto molti dipinti nel municipio di Parigi , tra cui  "Il violinista malato" e "La miseria" entrambi del 1886, dove chiaramente traspare l'animo dell'autore che, affetto da tubercolosi, dipinge gli aspetti sociali della malattia, e la sua relazione con le condizioni di vita alla fine del diciannovesimo secolo.

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IL VIOLINISTA MALATO

Il protagonista del fine vita è il paziente, inondato dalla luce. Tutti gli altri sono al massimo co-protagonisti, sfiorati dalla luce o addirittura nell’ombra. L’avere accanto le persone e le cose care (il proprio violino ad esempio) può dare sollievo.

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LA MISERIA

La tela raffigura una scena desolata di un giovane marito seduto accanto a sua moglie supina che è appena morta in un ambiente impoverito di tubercolosi. Le figure sono vicine ma estremamente lontane. Le mani si sfiorano ma non si toccano, sembrano due rette parallele che si incontrano all’infinito. Lo sguardo del marito si allontana dalla moglie morente, quasi a rinnegare lei e la malattia. Così siamo a volte noi medici durante la nostra professione: paralleli alle esigenze del malato, lontani. La donna ha un seno scoperto, a sottolineare che siamo nudi di fronte alla morte e che ci dimentichiamo come il morente possa avere pudore. Dovremmo ricordarci di penetrare più a fondo l’animo del nostro paziente, di essere più empatici ed avere compassione.

Munch

Nel 1886 Edvard Munch termina di dipingere "Bambina malata" (in norvegese "Det syke barn"). Il quadro nasce da uno spunto autobiografico: la tragica morte della sorella Sophie, stroncata nel 1877 da una feroce tubercolosi.

«Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La bambina malata. […] Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte venne a prenderli»

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La gestazione dell'opera è dettagliatamente descritta nel diario personale dello stesso Munch, ove è spiegato il legame che vincola le sue vicende esistenziali al suo modo di fare arte:

«Quando vidi la bambina malata per la prima volta – la testa pallida con i vividi capelli rossi contro il bianco cuscino – ebbi un’impressione che scomparve quando mi misi al lavoro. Ho ridipinto questo quadro molte volte durante l’anno – l’ho raschiato, l’ho diluito con la trementina – ho cercato parecchie volte di ritrovare la prima impressione – la pelle trasparente, pallida contro la tela – la bocca tremante – le mani tremanti. Avevo curato troppo la sedia e il bicchiere, ciò distraeva dalla testa. Guardando superficialmente il quadro vedevo soltanto il bicchiere e attorno. Dovevo levare tutto ? No, serviva ad accentuare e dare profondità alla testa. Ho raschiato attorno a metà, ma ho lasciato della materia. Ho scoperto così che le mie ciglia partecipavano alla mia impressione. Le ho suggerite come delle ombre sul dipinto. In qualche modo la testa diventava il dipinto. Apparivano sottili linee orizzontali – periferie – con la testa al centro […] Finalmente smisi, sfinito – avevo raggiunto la prima impressione»

 

Munch, già a ventisei anni, intendeva restituire l'«impressione» psicologica, interiore (e non visiva) dell'agonia della sorella quindicenne.

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Trasferitosi a Berlino, Edvard Munch dipinge molti quadri e sopratutto "L'urlo", che più di tutti riesce a condensare con inaudita violenza la disperazione esistenziale dell'artista norvegese. Tra questi nel 1895 "La morte nella stanza della malata", dove si riappare il fantasma della morte della sorella: anche qui non è raffigurato il dolore fisico, ma quello psicologico.

Munch non narra la morte di Sophie, che si intravede a malapena e raffigurata seduta su una sedia con lo schienale alto, ma mostra la reazione dei singoli familiari di fronte a un evento tanto misterioso quanto la morte: questi risultano distanziati, e non uniti, dal dolore, che li intrappola e li svuota nei loro rispettivi cordogli. Le persone non comunicano fra loro, ma seguono il filo dei loro pensieri, come se stessero cercando di evadere dal mondo esterno che li circonda.

In primo piano vediamo le altre due sorelle del pittore, Laura e Ingres: la prima è seduta con le mani in grembo, mentre la seconda è in piedi e osserva lo spettatore. Nel dipinto è presente anche Munch, che si ritrae intento a scrutare la sorellina, mentre, la figura sulla sinistra che si sta allontanando dalla sala, è il fratello Peter Andreas.

Il dipinto raffigura un ricordo, quindi tutti i dettagli non necessari sono omessi, per questo l’ambiente dove si muovono i personaggi è completamente spoglio. I protagonisti non hanno l’età che avevano al momento dell’evento, ma quella dell’anno in cui venne concepito il quadro. Lo stesso Munch, che all’epoca della scomparsa della sorella aveva 14 anni, si raffigura infatti come uomo adulto.

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Sulla tela dipinta tra il 1897 e il 1899 "La madre morta e la bambina"  è descritto il dolore della sorellina Sophie per la morte della madre. La bambina è raffigurata con un bel vestito rosso e il volto pieno di dolore per la perdita della figura materna. Si tiene la testa, forse per timore che vada in frantumi, e dalla bocca emette un urlo straziante, un urlo  che gli altri personaggi ignorano completamente; tutti sono interessati a loro stessi, e non danno retta alla povera fanciulla che non riesce ancora ad accettare la morte della figura materna. Sophie volte le spalle al cadavere, forse, per cercare di sopravvivere al dolore generato dalla perdita. Il pavimento sotto di lei sembra sprofondare, ha dei sussulti, delle onde sismiche e singhiozza assieme alla piccola protagonista.

La posa di Sophie e l’urlo silenzioso emesso dalla bambina sono due elementi che ritorneranno nel dipinto più famoso di Munch: L’urlo (1893).

Monet

La triste storia di Madame Monet

 

Claude Monet conobbe Camille Doncieux nel 1865: lui venticinquenne, lei 18 anni. Nonostante Monet fosse dedito soprattutto alla pittura di paesaggio, realizzò anche vari dipinti di figura e fu proprio Camille la modella prediletta per molti di essi: La Colazione sull’Erba, La passeggiata ed altri.

La coppia ebbe il primo figlio, Jean, fuori dal matrimonio, nel 1867, e convolò a nozze nel 1870. Nel 1878 nacque il secondogenito Michel, ma Camille, gravemente malata di tubercolosi, non si riprese più da questo parto. Subito dopo l’artista, perseguitato dai creditori, si trasferì a Vétheuil, un villaggio a circa 70 km da Parigi. Il periodo non fu positivo per il pittore: Camille si aggravava, lui non aveva soldi né per curarla né per mantenere la famiglia e tentò addirittura il suicidio.

A questo periodo appartiene il quadro “Meditazione - Madame Monet seduta sul divano” che si trova proprio a Vétheuil, nella sala dedicata ivi trascorso da Monet.

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È uno dei pochi quadri d’interno di Monet, che dipinge qui la sua giovane sposa, a pochi mesi dal matrimonio. Non è un ritratto abituale: Camille non è esattamente di fronte all’artista, ma è comodamente sdraiata su un canapè, in atteggiamento pensoso, quasi sognante, in un momento di semplice intimità. Si può comunque cogliere uno stato di stanchezza e spossatezza non solo nel volto di Camille, ma anche dalla fiacchezza con cui le mani sorreggono appena il libro.

Camille morì la mattina del 5 settembre 1879, a Vétheuil, qualche ora dopo il matrimonio religioso da lei tanto desiderato. Fu sepolta nel cimitero del paese.

La seconda moglie di Monet, Alice Hoschedé, condannò poi la povera Camille alla damnatio memoriae distruggendo tutte le lettere e le immagini fotografiche della rivale tranne una del 1871, l’unica rimasta.

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Monet scelse di immortalare per l’ultima volta sua moglie nel quadro a olio presente in mostra: Camille sul Letto di Morte. Intuiamo la presenza di Camille sotto il tulle vaporoso che la ricopre e che fa sembrare evanescente la sua figura, come se fosse già un puro spirito. Il volto emaciato è avvolto da una fascia bianca che impedisce alla bocca di aprirsi e sul petto sono stati appoggiati dei fiori. La luce arriva da destra e i riflessi dalle tonalità blu, viola e rosa del tulle sulla donna sono resi con veloci pennellate sovrapposte che restituiscono perfettamente la trasparenza del tessuto che vela l’ultimo ritratto di Camille.

Monet stesso ci descrive come nacque quest’opera e di come, anche in un momento così doloroso, l’ossessione per gli effetti della luce e i colori e la voglia di coglierli nella loro fugacità presero il sopravvento. Così scrive all'amico Georges Clemenceau:

​

“Il colore è la mia ossessione, gioia e tormento per tutto il giorno. A tal punto che un giorno, all’alba, mi sono trovato al capezzale del letto di una persona che mi era molto cara e che tale rimarrà sempre. I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie per analizzare in maniera automatica la successione di colori sul suo viso immobile mentre sopravveniva la morte. E mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali.”

(…)

“Si era fatto strada in me il desiderio di fissare l’immagine di colei che ci aveva lasciati per sempre. Tuttavia, prima che mi balenasse il pensiero di dipingere i lineamenti a me così cari e familiari, il corpo reagì automaticamente allo choc dei colori.”

(…)

Mi sono sorpreso a guardare la sua tragica fronte, osservando quasi meccanicamente la sequenza dei colori mutevoli che la morte stava imponendo sul suo volto rigido. Blu, giallo, grigio e così via ... i miei riflessi mi costrinsero a intraprendere azioni inconsce nonostante me stesso.”

I divisionisti: Emilio Longoni e Giovanni Segantini

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Divisionisti

Emilio Longoni, "Tisi galoppante", 1883-1884, acquerello su carta grigia, tratto dal dipinto di Segantini dallo stesso titolo, 56,5 x 33,5 cm

Dal 1883 al 1884, Giovanni Segantini ed Emilio Longoni vivano e lavoravano insieme, mantenuti dalla galleria di Vittore Grubicy, spesso trattando i medesimi soggetti. Vittore, pienamente consapevole delle potenzialità di Segantini, nutriva nei suoi confronti una sorta di proiezione del proprio io, al punto di arrivare persino a firmare con il nome di Segantini opere di Longoni che riteneva all’altezza del protetto per eccellenza. Longoni non gradì l’abuso e se ne andò, rompendo il sodalizio e ogni contatto.

Come per “Tisi galoppante” acquerello apparso nel giugno 1967, alla Christie’s di Londra, attribuito a Segantini e che, in effetti, porta la sua firma in basso a destra. Tuttavia in una lettera ad Alberto Grubicy, fratello di Vittore, del 6 settembre 1898 così l’artisa scriveva: “…. L’acquarello delle Tise non è mia, deve essere di Longoni firmata da Vittore ….”.

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Giovanni Segantini, "Petalo di rosa", 1890, olio su tela, con aggiunte a foglia e polvere d’oro, 64 x 50 cm

Nel 1889-1890, Giovanni Segantini, ormai figura di spicco internazionale, cancellò un quadro degli esordi “Tisi galoppante”, ridipingendone un altro sulla stessa tela: “Petalo di rosa”. Gli interventi di restauro su "Petalo di rosa" confermano inequivocabilmente come sia stato ridipinto sopra Tisi galoppante, annullando così ogni fruizione dell’opera preesistente, per altro già nota ed esposta in diverse mostre e sicuramente nel 1881 e nel 1883.

Nove anni separano Petalo di rosa da Tisi galoppante. E sono anni fondamentali, di grandi sconvolgimenti, forse quelli decisivi nella vita dell’uomo e dell’artista, che rendevano ancor più logico chiedersi il motivo per cui Segantini avesse voluto cancellare un quadro degli esordi, ridipingendone un altro sulla stessa tela. Il 1881 è dunque la data ante quem di Tisi galoppante. Segantini ha ventitre anni. Sebbene non manchino i detrattori, è già il personaggio più acclamato della “giovane scuola lombarda”, ma le scelte fondamentali e l’affermazione internazionale sono ancora nel futuro. Grazie al pur modesto contributo settimanale che gli avrebbe versato Vittore Grubicy, si trasferisce in Brianza, iniziando a convivere con la protagonista del dipinto, Luigia Pierina Bugatti, detta Bice (1862-1938), che sarà la compagna di una vita. Decisione audace, decisamente antiborghese, fondare una famiglia senza sposarsi, tanto più che per i tempi Bice non era neppure maggiorenne, e sorella di Carlo Bugatti, il grande ebanista mobiliere della Belle Époque.

In tisi galoppante Bice appariva come una fanciulla, ancor più giovane di quanto già non fosse nella realtà, quasi certamente con il deliberato fine di drammatizzare al massimo il pathos del contesto. Sin dai decenni precedenti, infatti, la tubercolosi, flagello costante che falciava tanti giovanissimi, era stata ammantata da un alone di malattia romantica. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento si era sviluppata una vera e propria iconografia dell’inesorabile lento morire di “mal sottile”, con l’aggravante del “fiore reciso”, che, ormai declinata in termini veristi sia dalla letteratura che dalle arti visive, ovunque in Europa ma particolarmente a Milano, e dovette coinvolgere anche Segantini. C’era già, di fondo, nella sua psiche, un’ossessione della morte, legata alla prima infanzia di miseria accanto a una madre malata che lo avrebbe lasciato orfano a sette anni, portandolo a concepire l’arte quale superamento della perdita, suprema trascendenza alla caducità della vita.

Una concezione mai rinnegata, anzi divenuta fulcro del suo simbolismo e che inizia a esprimere in esiti visionari proprio nel 1890, l’anno in cui ultima Petalo di rosa. Tisi galoppante è una scena di genere, di quelle destinate proprio al successo di pubblico per la compartecipazione emotiva a un dramma umano di vasta proporzione. Per Segantini il soggetto è e sarà sempre primario nel determinare le scelte tecniche, e lo prova chiaramente il rifacimento dell’opera in esame. Tale fedeltà alla missione dell’arte come traduzione dell’idea in immagine gli costerà l’oblio nella seconda metà del secolo scorso, quando la critica, specie universitaria, in nome di una presunta sacralità dei dati pittorici fini a se stessi, condannerà tutto quanto sapesse di aneddotico o lezioso, ovvero l’iconografia come fonte del dipingere.

In “Petalo di rosa” una giovane donna giace tra le lenzuola bianche e poggia la testa su un grande cuscino. La pelle del suo viso è chiarissima ma accesa da un intenso rossore sulle guance. I capelli, poi, sono chiari, lunghi e scomposti. Le ciocche bionde spettinate incorniciano il volto della giovane e creano un groviglio sul cuscino. Gli occhi azzurri della ragazza inoltre sono spalancati e sembrano fissare il vuoto a sinistra. Infatti la sua espressione non sembra essere pienamente cosciente. La sua mano sinistra poi è poggiata sotto il mento e le dita afferrano una ciocca che ricade in avanti. Infine il capezzale del letto è rappresentato da una decorazione e sulla sinistra si nota una piccola croce appesa.

Il dipinto, nelle intenzioni di Segantini, suggerisce una sensazione di sessualità evocata dal viso della donna amata.

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