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Scapigliatura

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Boito

Arrigo Boito e Giuseppe Verdi

Se la Francia aveva coniato il termine "vie bohémienne" (vita da zingari, da “bohémien”, boemo), in l'Italia nacquero gli "Scapigliati", che si ispiravano alla vita disordinata e anticonformista degli artisti parigini, e  che recuperarono le suggestioni del romanticismo straniero e diffusero il gusto del naturalismo francese nascente e del maledettismo alla Baudelaire, anticipando verismo e decadentismo. Inoltre spesso e volentieri si compiacquero di un’estetica del brutto e del macabro, usarono la tisi come motivo ricorrente della loro ispirazione. Ne è esempio Arrigo Boito:

Chi dorme?... Un’etica

Defunta ieri

All’ospedale;

Tolta alle requie

Dei cimiteri,

E al funerale:

Delitto! e sanguina

Per piaga immonda

Il petto a quella!...

Ed era giovane!

Ed era bionda!

Ed era bella!

La lezione di anatomia

in "Il libro dei versi" - 1877

Arrigo Boito

Corazzini

I crepuscolari

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I poeti crepuscolari, proprio per la loro particolarissima sensibilità poetica (percezione dello svanire delle cose, sentimento malinconico dell’amore, il pensiero e il desiderio della morte non intesa eroicamente ma ironicamente) si ispirarono spesso al “mal sottile” anche per motivi autobiografici: di tubercolosi muore nel 1907, a neppure ventun’anni, Sergio Corazzini, romano, una delle voci più capaci di esprimere la “pena di vivere” propria di questa generazione di letterati.

Corazzini nei suoi versi racconta la vita in un sanatorio dell’Alto Adige, in una località chiamata Toblack. Qui i malati attendono la morte, tema ossessivo e incombente delle loro giornate e dell’ispirazione del poeta:

…E giovinezze erranti per le vie

piene di un grande sole malinconico

portoni semichiusi, davanzali

deserti, qualche piccola fontana

che piange un pianto eternamente uguale

al passare di ogni funerale,

un cimitero immenso, un’infinita

messe di croci e di corone, un lento

angoscioso rintocco di campana

a morto, sempre, tutti i giorni, tutte

le notti, e in alto, un cielo azzurro, pieno

di speranza e di consolazione,

un cielo aperto, buono come un occhio

di madre che rincuora e benedice.

Toblack

in "L'amaro calice" - 1905

Sergio Corazzini

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Gozzano
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Malato di tubercolosi polmonare è il caposcuola dei Crepuscolari, Guido Gozzano (Torino, 1883-1916). La malattia gli viene diagnosticata nell’aprile del 1907, quando il poeta ha solo ventiquattro anni e ha appena pubblicato la sua prima raccolta di versi, "La via del rifugio".

La vita del poeta, dopo la diagnosi, cambia drasticamente: Guido, che era sempre stato una personalità irriverente e incline alla vita mondana, è costretto a lasciare la sua amata città natale, Torino, e a trascorrere lunghi soggiorni in località balneari o montane, in completo isolamento. L’unico mezzo di comunicazione con il mondo esterno sono le lunghe lettere indirizzate al caro amico e collega Carlo Vallini, all’amata poetessa Amalia Guglielminetti e alla famiglia.
Leggendo questi epistolari, colpisce soprattutto l’ottimismo di Gozzano nell’affrontare sia la malattia, sia il conseguente isolamento forzato: non una parola di sconforto, né alcuna rammaricata considerazione sulla propria infelice condizione trapelano dalle sue parole. A Vallini Gozzano manda «abbracci con bacini e bacilli», riferisce di stare bene «Io sono qui ormai già sistemato e orientato nel mio tenor di vita e ti dico sinceramente che sono felice», scherza con lui sulle buffe terapie alle quali è sottoposto, come la cura con «maschera inalatrice», confessa di apprezzare la vita solitaria a contatto con la natura. Una menzogna, che il poeta racconta sia a sé stesso sia alle persone a lui care, alla quale terrà fede fino al sopraggiungere della morte, nell’estate del 1916.

​

La poesia "Alle soglie", è una delle più belle liriche che siano state dedicate alla condizione dell’individuo malato. Col suo disincanto ironico Gozzano è in grado di manipolare il lessico più comune con una tale abilità da poeticizzare perfino una asettica visita medica di routine. Prima di lui, i termini tecnologici, anatomici, medico-scientifici non avevano la dignità poetica che assumeranno nella sua poesia e nella produzione a lui successiva. Benché malattia e morte imminente diventeranno temi ricorrenti, Gozzano che non rinuncerà a coniugare il tema della sua infermità, prendendo garbatamente in giro – com’è nelle corde della sua poesia – i medici che pretendono di curarla:

Mi picchiano in vario lor metro non so quali segni,

m’auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli… 

Alle soglie

in "I colloqui" - 1911

Guido Gozzano

 

Le manifestazioni della patologia sono del tutto eliminate e prevale una visione comica di tutto ciò che ruota intorno alla diagnosi e alla terapia prescritta per curare il morbo,  come la prescrizione terapeutica in versi, in cui il medico sconsiglia al poeta di fumare e di avere rapporti sessuali.

«Nutrirsi…. non fare più versi… nessuna notte più insonne…
non più sigarette…. non donne…. tentare bei cieli più tersi:

Nervi…. Rapallo…. San Remo…. cacciare la malinconia;
e se permette faremo qualche radioscopia…»

Alle soglie

in "I colloqui" - 1911

Guido Gozzano

​

Anche il motivo del viaggio, caro ai poeti del Decadentismo, viene riproposto in chiave crepuscolare e legato alla malattia:

…Dove andrò? Non so… Viaggio,

viaggio per fuggire altro viaggio…

Oltre Marocco, ad isolette strane,

ricche di essenze, in datteri, in banane,

perdute nell’Atlantico selvaggio…

La signorina Felicita ovvero la Felicità

in "I colloqui" - 1911

Guido Gozzano

 

Tutta l’esistenza di Gozzano e tutta la sua poesia sono profondamente segnate dall’esperienza del “mal di petto”, che diventa la “cifra” stessa della vita del poeta:

Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,

se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.

L'ipotesi

in "Poesie sparse" - XX secolo

Guido Gozzano

 

Guido Gozzano, dopo aver passato una vita di solitudine, muore 9 agosto 1916 all’età di trentatré anni. Dopo quasi dieci anni d’attesa e di rimandi era arrivata la cosa-vera chiamata Morte, e le andò incontro con «le mani in tasca».

La condizione malata che lo ha costretto in esilio, lo ha esonerato, al contempo, dall’ incombenza di trovarsi una professione vera: resterà per sempre l’«avvocato» senza laurea de La signorina Felicita, che si vergogna di essere, in realtà, un poeta. La poesia è stata per lui la cura da ogni male: non solo il passatempo ludico di una vita spesa in quarantena, ma anche il pretesto per “raccontare”, con «dolci (bellissimi) versi», ricchi di ironia, il risvolto giocoso di un’esistenza tragica e “ricusando sempre il clamore della disperazione, il dramma luttuoso dello sconforto, s’incamminò invece verso la morte con le mani in tasca, sorridendo di quel vago sorriso leggero, con la stessa naturalezza con cui andò incontro al suo successo eccezionale”  (Giampiero Comolli -  1993).

i Futuristi
Aldo Palazzeschi - "La fontana malata" 1909
Palazzeschi

Agli inizi del '900 la tubercolosi era una malattia così diffusa che faceva parte del quotidiano di tutti: ricchi, diseredati, uomini colti, operai ignoranti, donne nobili e povere massaie, e come visto in questa pagina, anche degli artisti. La tisi oltre ad argomento letterario diventa anche strumento artistico e metafora. Aldo Palazzeschi, autore delle “Sorelle Materassi” e grande esponente dell’avanguardia letteraria italiana del primo novecento, riflettendo sul ruolo del poeta e della poesia nel mondo contemporaneo gioca su una prosaica e concreta fontana, per di più “malata”; e così l’oggetto inanimato diventato antropomorfo aggiunge ulteriore ironia e potenzia l’effetto dell’immagine. Infatti, la fontana tossisce come farebbe un malato di tisi: l’acqua non scende in un flusso continuo, ma a “singhiozzi”, come da un rubinetto otturato. Il dettaglio realistico dell’otturazione idraulica si fonde con quello analogo del mal di petto.

Ne “La fontana malata” il rigido schema metrico viene per la prima volta spezzato, in quanto ricorrono versi di tutte le lunghezze. Col tempo l'artista si attiene sempre meno a canoni formali di qualsiasi natura.

Palazzeschi, ancora “futurista” propone un’idea ludica, gioiosa e anarchica della poesia. Di lì a breve, non credendo ciecamente alle promesse del progresso si avvicinerà ai poeti crepuscolari; egli non vuole passare sotto il silenzio il dolore che amareggia la vita degli uomini. In realtà nell’uso dell’ironia inizia già ad avvicinarsi ai crepuscolari come Gozzano. Infatti così scrive di sé: “…bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange, sviluppando la nostra profondità. L’uomo non può essere considerato seriamente che quando ride [...] Nulla è triste profondamente, tutto è gioioso.”

Anche se durante la prima produzione letteraria Palazzeschi gradiva il fatto di restare più o meno nell'anonimato, la pubblicazione di “Poemi” nel 1909 stavolta non passerà inosservata.

​

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch…

 

È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;

che spasimo!
sentirla
tossire.

 

Tossisce,
tossisce,

un poco
si tace…
di nuovo
tossisce.

 

Mia povera
fontana,
il male che hai
il cuore
mi preme.

 

Si tace,
non getta
più nulla.

 

Si tace,
non s’ode
romore
di sorta
che forse…
che forse
sia morta?

​

Orrore
Ah! No.
Rieccola,
ancora
tossisce,

​

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
chchch…
La tisi
l’uccide.

​

Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
Che lagno!

 

Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno
tossire!

 

Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari…
magari
morire.

 

Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.

 

Mia povera
fontana,
col male che hai,
finisci
vedrai,
che uccidi
me pure.

 

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…

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