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David Vogel - "La cascata" - 1925

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David Vogel fu autore di pochi romanzi, ma di grande letteratura. La sua vita, orribilmente distrutta dalla Storia, lo porta a spostarsi per mezza Europa.

Nato nel 1891 a Satanov in Podolia (ora Ucraina) da una famiglia ebraica religiosa, incomincia a viaggiare per motivi di studio: nel 1914 si trovava a Vienna, e viene arrestato, all’inizio della Grande Guerra, quale cittadino di un Paese nemico. Soggiorna poi a Parigi dove comincia a scrivere la sua attività di scrittore. Successivamente, nel 1929, si reca a Tel Aviv, ma, temperamento inquieto, vi resta solo un anno: il torrido clima mediorientale infatti non gli garba. Ritorna nel Vecchio Continente e vive in ristrettezze economiche, abitando in diverse città. Allo scoppio del secondo conflitto viene ancora arrestato ma dai francesi, quale cittadino austriaco; poi dai tedeschi, in quanto ebreo. Deportato nel 1944, morì ad Auschwitz.

 

La sua prosa rappresenta un insolito anello di congiunzione tra Europa e Israele: si esprime in ebraico, una lingua all’epoca riscoperta da poco tempo che egli, al pari degli altri autori, contemporanei e successivi, modella ed arricchisce. Di lui abbiamo solo poche opere, l’ultima Romanzo viennese”addirittura ritrovato a Tel Aviv nel 2013.

 

“La cascata” è un romanzo breve, scritto in yiddish centrato sulle relazioni che si instaurano fra degenti, uomini e donne, e anche fra degenti e personale. Relazioni effimere, prevalentemente giocate sul registro dell'ironia, della galanteria, del disimpegno, in ultima analisi della finzione. Così in questa non meglio precisata località del Tirolo, tra i ospiti del sanatorio si intrecciano rapporti all’insegna di una gioia che si sforza di dimenticare la malattia. Forse niente più di una malattia lenta e avvolgente può provocare una prorompente voglia di vita, un desiderio di 'normalità' e insieme di evasione che spezzi l'angusta cornice di giornate tutte spese all'interno di un sanatorio. Per questo il sanatorio non è soltanto il luogo cupo della malattia e della cura, è anche una sorta di microcosmo esemplare:

 

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“Sulla terrazza inondata di sole, i malati sono in piedi o seduti, i termometri ficcati in bocca come sigarette. Alcuni stanno poggiati con la schiena al parapetto, la testa sporta verso l’alto a scambiare qualche frase con le ragazze chine sulle ringhiere dei piani superiori”.

 

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Il  luogo è teatro di un desiderio di vivere prorompente e di una sensualità marcata dall’ansia, un contesto che permette anche di conoscere strati insospettati della propria personalità.

Ma anche qui predomina la sottrazione, e l’amore non si può fare e non si può dire, perché, come sostiene il protagonista Irmi Ornik: “non ci si può distrarre mai dai polmoni, non è permesso all’uomo malato che danneggia i sani col semplice respiro”.

Da contraltare la forza e la suggestione della natura che rappresentano il polo opposto della vita costretta del sanatorio, come se i maestosi scenari alpini che lo circondano non potessero che incombere sul destino dei suoi ospiti. E quello che accade al protagonista Ornik, la cui principale occupazione, e preoccupazione, è di guarire al più presto e andarsene: si prova la temperatura ogni due ore, è terrorizzato dal vento gelido che spira dalle cime del monte Mendel. Il sanatorio di Vogel è l’immensa eco di una cascata, più notti sconfinate, più pensieri che perseguitano, perché non si può definire vita quell’assistere alla vita.

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“Scorsero davanti agli occhi di Ornik gli ultimi anni. Giorni, settimane, mesi uno accanto all’altro, di frequenti degenze in sanatorio. D’un tratto Ornik sentì il peso del proprio corpo come se lo tenesse in una mano”.

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Il male è impalpabile come il respiro, ma l’inguaribile fardello è esserci – la condanna incisa nella propria carne.

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